21 gennaio 2008

Saldi Bellici

Tempo fa mi chiedevo che fine facessero le armi non ricevute dalle forze di sicurezza irakene. In questi giorni la rivista Arms Control Today ha pubblicato il rapporto "Questionable Reward: Arms Sales and the War on Terrorism" che documenta come "negli ultimi sei anni, Washington ha intensificato le vendite e le forniture di armi high-tech, corsi di addestramento militare e assistenza tecnica a governi che non rispettano i diritti umani, i principi democratici o i trattati di non proliferazione".

Secondo i dati del rapporto di Rachel Stohl, analista del CDI (Center for Defense Information), gli Stati Uniti da soli costituiscono il 42% del mercato della vendita di armi, con contratti per un ammontare di 17 miliardi di dollari circa nel solo anno 2006. Seconda è la Russia, con un totale di 8,7 miliardi di dollari, terza la Gran Bretagna con 3 miliardi. Nella lunga lista dei clienti c'è l'Etiopia, negli ultimi anni teatro di massacri [*1] perpetrati dalla polizia sui civili, il Nepal, in cui le manifestazioni contro il governo e gli scioperi sono sedati con le pallottole [*2] e l'Uzbekistan, dove migliaia di musulmani sono attualmente imprigionati senza un giusto processo, alcuni dei quali torturati fino alla morte [*3]. Stesso discorso per il Pakistan del generale golpista Pervez Musharraf, che con l'Amministrazione Bush ha stipulato 10 miliardi di dollari di contratti, compresi dei costosi F-16 che possono portare testate nucleari. Il CDI ha documentato che le vendite di armamenti sono aumentate del 400% nei 5 anni seguenti all'11 settembre. Un comportamento in antitesi quindi con le intenzioni (a parole) di Bush, che dal 2001 mette sempre al primo posto della sua Amministrazione la campagna contro il terrorismo. Soprattutto se teniamo conto del fatto che molte di quest armamenti sono venduti a paesi che sperimentano quotidianamente gli effetti del terrorismo islamico della famigerata Al Qaeda sul loro stesso suolo, a cui si aggiunge il fatto che molte armi non sono nemmeno tracciate [*4] e potrebbero quindi benissimo finire nelle mani della guerriglia o degli oppositori del regime.

Tutte operazioni finanziate dal taxpayer americano, che oltre ad over versare una cospicua parte del suo stipendio per questa fallimentare "Guerra al terrore" (che penso si possa definire, senza troppe riserve, una campagna di finanziamento delle lobby militari), rischia che queste armi vengano utilizzate proprio da chi ci si prefigge di sconfiggere. Tutto ciò in nome di un progetto di difesa preventiva attuabile grazie alla propaganda, il cui scopo principale è quello di fabbricare un nemico esterno da cui difendersi. L'intera dottrina della sicurezza nazionale è centrata sull'esistenza di un 'nemico esterno' che sta minacciando la patria. Ma si tratta di un progetto che, se analizzato con la dovuta attenzione, fa acqua da tutte le parti, visto che sul suolo stesso degli Stati Uniti, le agenzie di intelligence di Turchia, Pakistan e Israele hanno il permesso, coperti da diversi organi governativi, di contrabbandare mensilmente materiale nucleare [*5].

Ciò che il mondo deve continuare a prendere sul serio non è un minacciato attacco da parte di "terroristi" ma la violenta disperazione di una barcollante Amministrazione che, con il benestare del Congresso a maggioranza democratica, protegge i suoi traffici criminali continuando a commettere terrorismo, proteggendo addirittura chi commette attentati contro un aereo [*6] e a gestire gruppi terroristici per raggiungere i suoi scopi politici (tra i quali il principale è la conquista di energia e risorse) e a impegnarsi in provocazioni terroristiche fomentando reazioni negative o "ritorsioni", o meglio cercando pretesti per poter espandere la propria sfera d'influenza. In calce riporto un estratto in lingua inglese del rapporto dell'Arms Control Association, sperando, visti i precedenti, che non sia profetico:

Second, these transfers could pose significant risks to long-term U.S. security and stability. From the outset, much of this military assistance is inconsistent with U.S. efforts to spread peace and democracy throughout the world. Beyond the theoretical or principled contradiction, however, the reality is that once these weapons leave U.S. possession and
training courses are completed, the United States cannot control how or by whom the weapons are used or the training is implemented. The situation in Iraq demonstrates this reality: U.S. weapons intended for Iraqi security forces have ended up in the hands of insurgents in Iraq and Turkey. In many cases, the countries receiving U.S. military assistance have only pledged assistance to the war on terrorism and may in fact behave in ways the United States opposes. Yet, little can be done in response beyond limiting future weapons and training.
Moreover, the United States suffers from the possibility of blowback—having these weapons used against U.S. troops, civilians, or interests down the road—a phenomenon the United States has experienced firsthand in Afghanistan and Iraq. Weapons provided to the mujahideen in the 1980s were used by the Taliban and today’s Afghan rebels. In Iraq, weapons provided to Saddam Hussein during the 1980s remain in circulation and in the hands of Iraqi insurgents. The Bush administration’s policy of arming these new allies for short-term gains could put the United States at considerable risk and result in the United States facing its own weapons as political alliances deteriorate. Because the United States has increased transfers and training to countries that have dismal records on democracy, human rights, and loyalty, it is not too far a stretch to believe that some of these new allies could turn against the United States in the future.

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