14 agosto 2006

Un avvertimento all'Africa

(fonte: John Bellamy Foster, link all'articolo)

L’imperialismo è una costante del capitalismo, ma attraversa diverse fasi a seconda dell’evoluzione del sistema. Al momento il mondo sta attraversando una nuova era dell’imperialismo caratterizzata dalla imponente strategia di dominazione globale attuata dagli Stati Uniti. Un segno di come le cose siano cambiate è che le forze armate statunitensi operano a livello globale, con basi permanenti in ogni continente inclusa l’Africa, dove si sta svolgendo una nuova contesa per il controllo basata sul petrolio. Nel decennio successivo al collasso dell’Unione Sovietica, si condannava spesso l’assenza di una strategia paragonabile a ciò che George Kennan etichettava come “politica di contenimento”, sotto la cui copertura gli Stati Uniti intervennero durante gli anni della Guerra Fredda. Il nocciolo della questione, così come fu posto nel novembre 2000 dall’analista della sicurezza nazionale Richard Haass, fu quella di determinare in che modo gli Stati Uniti dovessero utilizzare il loro “surplus” di potere per ridisegnare il mondo. La risposta di Haass, che lo fece assumere a direttore della pianificazione politica per il dipartimento di stato di Colin Powell nella nuova amministrazione Bush, fu quella di promuovere la strategia di una “America Imperiale”, finalizzata a garantire il predominio globale degli Stati Uniti per i decenni a venire. Solo alcuni mesi prima, in una relazione scritta dai futuri esponenti di spicco dell’amministrazione Bush, tra i quali Donald Rumsfeld, Paul Wolfwitz e Lewis Libby, una strategia simile, seppur di tipo più apertamente militaristico, era stata presentata dal Progetto per il Nuovo Secolo Americano. In seguito agli attacchi dell’11 settembre, questa nuova grande strategia imperiale si concretizzò nelle invasioni degli stati Uniti in Afghanistan e in Iraq, e fu presto inserita ufficialmente nella Dichiarazione di Strategia di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, scritta nel 2002. Riassumendo la nuova strategia imperiale, Stephen Peter Rosen, direttore dell’Olin Institute for Strategic Studies di Harvard e membro fondatore del Progetto per il Nuovo Secolo Americano, scrisse nell’ Harvard Magazine:

“Un’unità politica che ha una superiorità militare schiacciante e usa quel potere per influenzare il comportamento interno di altri stati è definito un impero. Dal momento che gli Stati Uniti non cercano di controllare il territorio o governare i popoli d’oltremare, noi [americani] siamo un impero, indiretto a dire il vero, ma pur sempre un impero. Se è così, allora il nostro obiettivo non è combattere un rivale ma mantenere la nostra posizione e un ordine imperiale. Organizzare guerre imperiali è diverso dal progettare guerre internazionali convenzionali…le guerre imperiali per riportare l’ordine non sono così innaturali. Bisogna usare più velocemente possibile tutte le forze a disposizione per l’impatto psicologico, a dimostrazione del fatto che l’impero non può essere sfidato rimanendo impuniti… La strategia imperiale mira a prevenire l’insorgere di minacce potenti e ostili all’impero: con la guerra se necessario, ma preferibilmente con l’assimilazione all’impero".

In un commento del 2002 sulla politica estera, John Lewis Gaddis, professore di storia militare e navale a Yale, dichiarò che lo scopo dell’imminente guerra in Iraq era quello di riproporre la battaglia di Agincourt negli argini dell’Eufrate, quale dimostrazione di un potere così grande che, come nella famosa vittoria di Enrico V in Francia nel 15° secolo, avrebbe cambiato l’organizzazione geopolitica per i decenni a venire. Secondo Gaddis, la posta in gioco era la gestione del sistema internazionale da parte di una singola “egemonia”, che gli stati Uniti potevano assicurarsi attraverso azioni preventive, attuando quindi nient’altro che una nuova e grande “strategia di trasformazione!. Sin dai tempi di Clausewitz in ambito militare si elaboravano tattiche come “l’arte di usare le truppe in battaglia” o “l’arte di usare le battaglie per vincere la guerra”. Al contrario, l’idea di una grande strategia, come normalmente promossa dagli strateghi e dagli storici militari quali Edward Meade Earle e B.H. Liddell Hart, si rifà all’integrazione fra il potenziale bellico di uno stato e i suoi più ampi scopi politico-economici. Come osservò lo storico Paul Kennedy in “Strategie Grandiose in Guerra e Pace” (1991): “una vera grande strategia è preoccupata della pace così come (e forse di più) della guerra…dell’evoluzione o dell’integrazione delle politiche che dovrebbero operare per decenni, o persino per secoli”.

Le strategie grandiose hanno un orientamento geopolitico, in quanto sono finalizzate al dominio di intere regioni geografiche incluse le loro risorse quali possono essere minerali, corsi d’acqua navigabili, vantaggi economici, popolazioni e posizioni militari strategiche. Le strategie grandiose che hanno avuto più successo in passato sono quelle di imperi, che sono stati in grado di mantenere il loro potere su enormi distese geografiche per periodi di tempo molto lunghi. Pertanto, gli storici si concentrano di solito sull’impero Britannico del 19° secolo (Pax Britannica) e anche sull’antico Impero Romano (Pax Romana). Oggi per gli Stati Uniti non c’è più in gioco solo il controllo di una semplice parte del mondo ma una vera e globale Pax Americana. Nonostante alcuni osservatori abbiano visto l’ultima ambizione imperiale degli Stati Uniti come l’opera di un piccolo gruppo di neo-conservatori all’interno dell’amministrazione Bush, la realtà è quella di una larga concorrenza interna alla struttura del potere statunitense, che rende necessaria l’espansione dell’impero Americano. Di recente è uscita una raccolta di commenti che include contributi di critici dell’amministrazione, si intitola “L’Obbligo dell’Impero: la Grande strategia degli Stati Uniti per un Nuovo Secolo”.

Ivo H. Daadler (membro del Brookings Institution e già consigliere di politica estera per Howard Dean) e James M. Lindsay (nuovo presidente del Consiglio per le Relazioni con l’Estero, e precedente membro Consiglio di Sicurezza Nazionale di Clinton) nel loro libro “America Unbound” sostennero che gli Stati Uniti hanno avuto per lungo tempo un “Impero Segreto” mascherato da multilateralismo. La politica unilaterale di Bush basata sulla creazione di un “impero fondato solo sul potere americano” ha cambiato le cose al punto che ha svelato il carattere nascosto dell’impero e ha ridotto la sua forza globale dipendendo meno dagli stati vassalli. Secondo Daadler e Lindsay, gli Stati Uniti sono ora sotto il controllo di pensatori “egemoni” che vogliono assicurarsi che l’America domini il mondo intero, sia per il suo interesse nazionale sia per ridisegnare il mondo in accordo con “l’imperialismo democratico”. Tuttavia, mettono in luce che questa posizione così aggressiva non è del tutto nuova alla politica americana. Una spinta imperiale unilaterale era presente già al tempo di Theodore Roosvelt, e dall’inizio dell’era della Guerra Fredda nelle amministrazioni Truman e Eisenhower. Inoltre, Daadler e Lindsay dimostrano che è possibile cooperare con le altre grandi potenze che stanno cadendo nell’ombra degli Stati Uniti come approccio superiore al come guidare un impero. Un imperialismo cooperativo di questo genere diventa più difficile da realizzare una volta che il potere dell’egemonia comincia a svanire. Gli Stati Uniti, infatti, non stanno soffrendo solo l’incremento della competizione economica, ma con il crollo dell’Unione Sovietica, si è indebolita anche l’alleanza della NATO: i subalterni europei di Washington non seguono sempre la sua guida, anche se non sono capaci di contrastarla apertamente. La tentazione di un potere economico che si affievolisce pur essendo ancora armato e pericoloso è quella di tentare di ricostruire e persino espandere il proprio potere attraverso azioni militari. La guerra per il capitalismo del nuovo secolo americano è un sistema, mondiale per la portata economica, ma politicamente diviso in stati rivali che da un punto di vista economico si sviluppano a velocità diverse. La contraddizione di uno sviluppo capitalista irregolare/discontinuo fu esposta da Lenin nel 1916 in “Imperialismo, il livello più alto di Capitalismo”:

Sotto il Capitalismo non c’è nessun altro metodo concepibile per la divisione in sfere d’influenza, di interesse, di colonie ecc… se non un calcolo della forza di coloro che prendono parte alla divisione, della loro forza economica, finanziaria, militare… E la forza di chi partecipa alla divisione non diventerà mai equa, perché sotto il capitalismo lo sviluppo di differenti imprese, società di investimento, rami d’azienda o nazioni non può essere uguale. Mezzo secolo fa, la Germania era una nazione miserabile e insignificante dal punto di vista capitalistico, se paragonata alla forza dell’Inghilterra nello stesso periodo. Il Giappone era ugualmente insignificante rispetto alla Russia. È concepibile che in 10 o 20 anni la forza delle potenze imperiali sarà rimasta invariata? Assolutamente inconcepibile”.

È oramai risaputo che il mondo sta vivendo una trasformazione economica. Il tasso di crescita dell’economia mondiale non è il solo che stia andando a rilento, ma la relativa forza economica degli USA sta continuando ad indebolirsi. Nel 1950, gli Stati Uniti rappresentavano metà del prodotto interno lordo mondiale, scendendo a poco più di 1/5 nel 2003. Allo stesso modo, nel 1960, rappresentavano circa metà del capitale mondiale per gli investimenti all’estero, paragonato a poco più del 20% all’inizio di questo secolo. Secondo le proiezioni di Goldman Sachs, la Cina entro il 2039 potrebbe sorpassare gli Stati Uniti come più grande potenza economica mondiale. Questa crescente minaccia al potere degli Stati Uniti sta alimentando l’ossessione di Washington di porre le fondamenta per un Nuovo Secolo Americano. L’attuale interventismo mira ad approfittare del suo momentaneo primato economico e militare per assicurarsi vantaggi strategici che porteranno garanzie di supremazia globale a lungo termine. L’obiettivo è di estendere il potere statunitense privando i potenziali rivali di quei vantaggi strategici vitali che potrebbero permettere loro di sfidare gli Stati Uniti a livello globale o persino all’interno di particolari regioni. La Strategia di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti del 2002 dichiarava che “le nostre forze saranno abbastanza forti da dissuadere i potenziali avversari dal perseguire un’intensificazione militare nella speranza di superare, o eguagliare, il potere degli Stati Uniti”. Ma la grande strategia va al di là del semplice potere militare. I vantaggi economici di fronte ai potenziali rivali sono la vera ragione della competizione capitalista. Perciò, la grande strategia degli Stati Uniti integra il potere militare con la lotta per controllare il capitale, il commercio, il valore del dollaro e i materiali grezzi. Forse la più chiara delle disposizioni strategiche degli Stati Uniti è stata fornita in “A Grand Strategy for America” [“Una Straordinaria Strategia per l’America”] da Robert J. Art, professore di Affari Interni a Brandeis e ricercatore associato dell’Olin Istitute: “una grande strategia” scrive “ dice ai leaders di una nazione a quali obiettivi dovrebbero mirare e come possono sfruttare al meglio il potere della loro nazione per ottenere questi obiettivi”. Concettualizzando questa grande strategia degli Stati Uniti, Art presenta 6 interessi nazionali in ordine di importanza:

1) Prevenire ogni attacco in territorio americano;
2) Prevenire la guerra fra grandi potenze eurasiatiche e, se possibile, le forti competizioni che le rendono probabili;
3) Preservare l’accesso alle forniture di petrolio a prezzi ragionevoli e sicuri;
4) Preservare un ordine economico internazionale aperto;
5) Incoraggiare la diffusione della democrazia e il rispetto dei diritti umani all’estero, e prevenire genocidi o uccisioni di massa nelle guerre civili;
6) Proteggere l’ambiente soprattutto dagli effetti avversi di riscaldamento globale e dai violenti cambiamenti climatici.

Dopo la vera e propria difesa nazionale, ovvero la difesa della “patria” contro gli attacchi esterni, le successive tre priorità strategiche sono le seguenti: 1- il tradizionale obiettivo geopolitico di egemonia nel cuore del continente Euroasiatico visto come chiave per il potere sul mondo intero; 2- assicurare il controllo sulle forniture mondiali di petrolio; 3- promuovere rapporti economici di capitalismo mondiale. Per far collimare questi obiettivi, secondo Art gli Stati Uniti dovrebbero mantenere le loro forze in campo in Europa e nell’Asia dell’est (le due potenti regioni che delimitano l’Eurasia) e nel Golfo persico (che contiene il grosso delle riserve mondiali di petrolio). “L’Eurasia è la patria della maggior parte delle popolazioni del mondo, della maggior parte delle riserve di petrolio accertate e della maggior parte delle forze militari statunitensi così come di una larga fetta della loro crescita economica”. Pertanto, è cruciale che la grande strategia imperiale degli Stati Uniti sia finalizzata al rafforzamento dell’egemonia in questa regione, a cominciare dalle regioni dell’Asia centro-meridionali, fondamentali per il petrolio.

Con le guerre in corso e l’occupazione dell’Afghanistan e dell’Iraq ancora insolute, Washington sta predisponendo la minaccia dei suoi attacchi preventivi sul più potente vicino di questi stati, l’Iran. La giustificazione fornita per questo attacco è il programma iraniano di arricchimento dell’uranio, che potrebbe eventualmente permettere allo stato di sviluppare la capacità di costruire armi nucleari. Come era già successo per l’Iraq, l’Iran è una delle potenze dominanti per il petrolio, con i più grandi giacimenti accertati secondo solo all’Arabia Saudita e davanti all’Iraq. Pertanto, controllare l’Iran è cruciale per gli obiettivi di Washington di dominare il Golfo Persico e il petrolio ivi contenuto. L’importanza geopolitica dell’Iran non è legata solo al Medioriente ma, come anche nel caso dell’Afghanistan, è la ricompensa del nuovo Grande Gioco per il controllo di tutta l’Asia centro-meridionale, incluso il bacino del Mar Caspio con le sue enormi riserve di combustibile fossile. Gi strateghi statunitensi sono ossessionati dalla paura che l’Asia crei una rete di sicurezza energetica, nella quale Russia, Cina, Iran e le regioni centrali dell’Asia (incluso il Giappone) si potrebbero unire economicamente per stipulare un accordo energetico, in maniera tale da spezzare il controllo asfissiante statunitense e occidentale sul mercato mondiale di gas e petrolio, e creare così le basi per uno spostamento del controllo mondiale verso Est. Ad oggi la Cina, la nazione con la più rapida crescita economica, non dispone di sicurezza energetica, nonostante la sua richiesta di combustibile fossile sia in rapida crescita. In parte si sta cercando di risolvere questo problema attraverso un più ampio accesso alle risorse energetiche dell’Iran e degli stati dell’Asia centrale (link). Il tentativo degli Stati Uniti di stabilire un’alleanza più forte con l’India, caldeggiata da Washington col sostegno dell’India come potenza nucleare, fanno chiaramente parte di questo nuovo Grande Gioco per il controllo dell’Asia centro-meridionale, che ricorda quello del 19° secolo tra Inghilterra e Russia per il controllo di questa parte dell’Asia.

Se da un lato un nuovo grande gioco sta per essere messo in atto in Asia, allo stesso tempo c’è anche una Nuova Scalata all’Africa da parte delle grandi potenze. La strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti del 2002 dichiarava che “per combattere la guerra globale al terrorismo” e assicurare la sicurezza energetica statunitense si richiedeva che le Nazioni Unite aumentassero i loro impegni per l’Africa e chiamassero in azione “coalizioni di volonterosi” per creare organizzazioni di sicurezza regionale nel continente. Subito dopo, il Comando Europeo degli Stati Uniti, incaricato delle operazioni militari USA nell’Africa sub-sahariana, incrementò le attività nell’Africa occidentale, incentrandole su quegli stati intorno al Golfo di Guinea che hanno una sostanziale produzione di petrolio e risorse consistenti (che si estende dalla Costa D’Avorio all’Angola). Se nel 2003 c’era un totale disinteresse per l’Africa, il Comando Europeo dell’Esercito statunitense dedica ora il 70% del suo tempo agli affari in Africa.

Nella sua introduzione al rapporto per il consiglio del 2005 dal titolo “Più che Umanitarismo: un Approccio strategico degli Stati Uniti verso l’Africa”, Richard Haas, ora presidente del Consiglio per le Relazioni con l’Estero, sottolinea che “entro la fine del decennio l’Africa sub-sahariana probabilmente diventerà una fonte di importazione energetica per gli Stati Uniti importante come lo è ora il Medio Oriente. L’Africa occidentale ha qualcosa come 60 miliardi di barili di riserve petrolifere accertate. Il suo petrolio è il greggio leggero a basso contenuto di zolfo, che viene apprezzato dall’economia statunitense. Le agenzie americane e gli istituti di ricerca calcolano che 1 su 5 barili di petrolio che entreranno nell’economia mondiale nell’ultima parte di questo decennio arriverà dal Golfo di Guinea, e questo alzerà il tasso di importazione petrolifera statunitense dal 15 a più del 20% entro il 2010 e al 25% entro il 2015. La Nigeria fornisce già agli stati Uniti il 10% della loro importazione petrolifera; dall’Angola proviene il 4% dell’importazione, che potrebbe raddoppiare entro il 2010. le scoperte di nuove riserve e l’espansione della produzione petrolifera stanno trasformando altri stati della nazione in principali esportatori di petrolio, incluse la Guinea Equatoriale, Sao Tomè e Principe, il Gabon, il Camerun e il Chad. Si prevede che persino la Mauritania emergerà come esportatore di petrolio entro il 2007. Il Sudan, che confina con il Mar Rosso a est e con il Chad a ovest, è un importante produttore di petrolio. Al momento, la principale base militare permanente degli Stati Uniti in Africa è quella fondata nel 2002 a Djibuti, nel Corno d’Africa, che conferisce agli USA il controllo strategico della zona marittima attraverso la quale passa un quarto della produzione mondiale di petrolio. La base di Djibuti è anche situata in prossimità dell’oleodotto del Sudan (l’esercito francese è stato presente a Djibuti per molto tempo e ha anche una base aerea a Abeche, nel Chad, al confine col Sudan). La base di Djibuti permette agli Stati Uniti di dominare l’estremità est di questa vasta striscia di petrolio che attraversa l’Africa, ed è considerato una base centrale per gli interessi strategici degli USA. Una vasta striscia si espande verso sud-ovest dall’oleodotto di Hugleig Port nel Sudan, lungo 994 miglia, fino alla conduttura lunga 640 miglia fra il Chad, il Cameroon e il Golfo di Guinea a ovest. Un’altra posizione strategica statunitense sarà quella in Uganda che consentirà all’America di dominare il sud del Sudan, dove si può trovare la maggior parte del petrolio di quella regione".

[Il petrolio in Africa: maggiori giacimenti (simbolo del pozzo petrolifero), investimenti di Cina, India, Iran, Brasile (bandiere) e USA (dollaro), attività militari o di intelligence di Francia o Regno Unito (bandiere), attività della NATO o della CIA (fucili incrociati), attività di al-Qaeda (AQ). Gli stati in rosso sono quelli in cui è in corso una guerra civile. Dal sito www.fromthewilderness.com]

Nell’Africa occidentale, il Comando Europeo dell’Esercito Statunitense ha creato postazioni che in futuro opereranno in Senegal, a Mali, nel Ghana e nel Gabon, così come in Namibia, al confine sud con l’Angola, ed espanderà il potenziamento delle basi aeree, predisponendo il posizionamento di forniture critiche di combustibile e un accordo di passaggio per lo spiegamento delle truppe americane. Nel 2003 gli Stati Uniti lanciarono un programma di antiterrorismo nell’Africa occidentale e nel marzo 2004 le forze speciali americane furono direttamente coinvolte in un’esercitazione militare con le nazioni dello Shael contro il “gruppo Salafita per la preghiera e il combattimento”, inserito nella lista di organizzazioni terroristiche di Washington. Il Comando Europeo Statunitense sta sviluppando un sistema di sicurezza lungo le coste del Golfo di Guinea chiamato appunto Guardia del Golfo di Guinea. Si sta anche pianificando la costruzione di una base navale a Sao Tomè e Principe, che potrebbe fare concorrenza alla base navale di San Diego Garcia nell’Oceano Indiano. Il Pentagono si sta perciò muovendo in maniera aggressiva per consolidare la presenza militare nel Golfo di Guinea che potrebbe consentire il controllo della parte occidentale della vasta striscia di petrolio che attraversa l’Africa e delle riserve di petrolio che si stanno scoprendo. L’operazione Flintock, una iniziale esercitazione militare nell’Africa occidentale nel 2005 incorporò 1000 forze speciali americane. Questa estate il comando europeo statunitense condurrà un’esercitazione per la sua nuova forza di reazione rapida per il Golfo di Guinea.

In questa zona è forte il richiamo del commercio: le maggiori aziende petrolifere statunitensi occidentali si contendono il petrolio dell’Africa occidentale ed esigono sicurezza. Il comando militare europeo degli stati Uniti, come riportato nel Wall Street Journal del 25 aprile, sta lavorando anche con la Camera di Commercio statunitense per ingrandire il ruolo delle aziende USA in Africa come parte di una “reazione statunitense integrata”. In questa scalata alle risorse petrolifere Africane, le antiche colonie imperiali, Inghilterra e Francia, sono in competizione con gli Stati Uniti. Da un punto di vista militare, comunque, stanno lavorando a stretto contatto con il Pentagono per assicurare un controllo imperiale occidentale sulla regione.

L’insediamento dell’esercito statunitense in Africa è spesso giustificato come necessario sia per combattere il terrorismo sia per contrastare la crescente instabilità nelle regioni petrolifere dell’Africa sub-sahariana. Dal 2003, il Sudan è stato lacerato dai conflitti etnici focalizzati nella regione sud-occidentale del Darfur (dove è situata la maggior quantità di petrolio della regione), che hanno portato innumerevoli violazioni di diritti umani e uccisioni di massa da parte delle milizie legate al governo contro la popolazione della regione. Tentativi di colpi di stato si sono verificati di recente nelle nuove regioni di San Tomè e Principe (nel 2003) e nella Guinea Equatoriale (2004). Anche il Chad, devastato da un regime brutalmente oppressivo protetto da un apparato di sicurezza e intelligence appoggiato dagli Stati Uniti, ha sperimentato un colpo di stato nel 2004. Un colpo di stato riuscito si è invece avuto in Mauritania nel 2005 contro l’uomo forte appoggiato dagli Stati Uniti, Ely Ould Mohamend Roya. La guerra civile dell’Angola, durata 30 anni, fu istigata e nutrita dagli Stati Uniti che, insieme al Sud-Africa organizzarono un esercito terroristico sotto l’organizzazione “UNITA” di Gones Sawimbi, durata fino al cessate il fuoco conseguente alla morte di Sawimbi avvenuta nel 2002. In Nigeria, stato egemone della regione, dilagano corruzione, rivolte e furti organizzati di petrolio. Le preoccupazioni centrali degli Stati Uniti sono l’aumento dell’insurrezione armata nel delta del Nilo e il potenziale conflitto fra il nord della regione islamico e il sud non-islamico. Quindi, questi “Interventi Umanitari” in Africa continuano ad essere giustificati. Nella relazione del Consiglio per gli affari Esteri viene scritto che “gli Stati Uniti e i suoi alleati devono essere pronti a intraprendere azioni appropriate nel Darfur, incluse sanzioni e, se necessario, interventi militari se al consiglio di Sicurezza viene impedito di farlo”.

Allo stesso tempo, l’ipotesi che l’esercito statunitense potrebbe intervenire in Nigeria è stata ampiamente ventilata fra gli esperti e nei circoli politici. Jeffrey Taylor, corrispondente dell’Atlantic Monthly, scrisse nell’aprile 2006 che la Nigeria “è diventata il più grande stato fallito sulla terra”, e che “un’ulteriore destabilizzazione dello stato, o una sua sopraffazione da parte delle forze islamiche, metterebbe in pericolo le abbondanti riserve di petrolio che l’America ha giurato di proteggere. Se quel giorno dovesse arrivare, questo potrebbe annunciare un intervento militare molto più ingente rispetto alla campagna irachena”. Gli strateghi statunitensi hanno ben chiaro che i veri obiettivi non sono gli stati africani in sé e il benessere delle loro popolazioni, ma il petrolio e la crescente presenza cinese in Africa.



Così come messo in luce dal Wall Street Journal in "Africa Emerges as a Strategic Battlefield," [“L’Africa Emerge come un Campo di Battaglia Strategico”n.d.t.], la Cina opera in Africa in prima linea nel tentativo di conquistare una maggiore influenza a livello globale; ha infatti triplicato il commercio con il continente nell’arco degli ultimi 5 anni , ha chiuso i rapporti commerciali con i regimi come il Sudan e sta educando la futura élite africana nelle università cinesi e nelle scuole militari. In “più che Umanitarismo”, allo stesso modo il Consiglio per le relazioni con l’Estero dipinge la minaccia principale come proveniente dalla Cina: la Cina ha alterato il contesto strategico in Africa. Oggi, in tutta l’Africa, la Cina sta conquistando il controllo di risorse naturali, rilanciando gli imprenditori occidentali su importanti progetti di infrastrutture, e concedendo comodi prestiti e altri incentivi per sostenere il suo vantaggio competitivo. La Cina importa più di un quarto del suo petrolio dall’Africa, principalmente dall’Angola, dal Sudan e dal Congo. E’ il più grande investitore estero in Sudan. Ha portato sussidi alla Nigeria per aumentare la sua influenza e sta vendendo aerei da combattimento proprio lì. La cosa più preoccupante dal punto di vista della grande strategia degli stati Uniti è il prestito di 2 miliardi di dollari a basso interesse concesso nel 2004 dalla Cina all’Angola, che ha permesso a quest’ultima di resistere alle richieste del Fondo Monetario Internazionale per ridisegnare la sua economia e la società su linee neoliberiste. Per il Consiglio per le Relazioni Estere, tutto questo si risolve in nient’altro che una minaccia per il controllo imperiale dell’Africa da parte dell’occidente.

Dato il ruolo della Cina, la relazione del consiglio dice che “l’Europa e gli Stati Uniti non possono considerare l’Africa come il loro territorio di caccia privato, come una volta fecero i francesi con l’Africa francofona. Le leggi stanno cambiando, in quanto la Cina non cerca solo di guadagnarsi l’accesso alle risorse, ma anche di controllarne la produzione e la distribuzione, forse posizionandosi come principali fruitori qualora le risorse dovessero ridursi”. Il rapporto del Consiglio sull’Africa è così preoccupato di combattere la Cina attraverso un’espansione delle operazioni militari statunitensi, che nientemeno che Chester Crocker, ex assistente segretario di stato per gli Affari Africani nell’amministrazione Reagan, lo accusa di “nostalgia per un’epoca in cui gli Stati Uniti e l’Occidente erano l’unica grande influenza e potevano perseguire… i loro obiettivi in piena libertà”. Di certo, l’impero statunitense si sta espandendo per inglobare parti dell’Africa nella spietata ricerca di petrolio. I risultati potrebbero essere devastanti per le popolazioni africane. Come l’antica corsa all’Africa, quest’ultima è una lotta tra grandi potenze per le risorse e per il bottino, non per lo sviluppo dell’Africa o per il benessere delle sue popolazioni. Nonostante il contesto strategico si stia evolvendo rapidamente e l’imperialismo negli ultimi anni sia più libero, c’è una coerenza nella grande strategia imperiale degli USA che deriva dal largo accordo ai vertici della struttura americana, sulla convinzione che gli Stati Uniti dovrebbero cercare una “supremazia globale”, come espose Zbigniw Bzenzinski, consigliere per la sicurezza nazionale dell’ex presidente Jimmy Carter.

La relazione “Più che Umanitarismo” del 2006 del Consiglio per le Relazioni con l’Estero che supporta l’espansione della grande strategia americana in Africa, fu condivisa da Anthony Lake, consigliere di Clinton per la Sicurezza Nazionale dal 1993 al 1997 e da Christine Todd Whitman, precedentemente capo dell’Ente per la Protezione ambientale sotto Bush. Come consigliere di Clinton per la sicurezza nazionale, Lake ebbe un ruolo principale nella definizione della grande strategia degli Stati Uniti nel corso dell’amministrazione Clinton. In un discorso intitolato “Dal Contenimento all’Espansione” rilasciato alla School of Advanced International Studies, alla John Hopkins University il 21 dicembre 2003, Lake dichiarò che con il collasso dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti erano “la potenza mondiale dominante…abbiamo l’esercito più potente del mondo, la più grande economia e la società più dinamica e multietnica…abbiamo tenuto a bada la minaccia globale alle democrazie di mercato; adesso dobbiamo cercare di espanderci, loro di raggiungerci. Dopo una dottrina di contenimento deve essere attuata una strategia di espansione”. In poche parole, ciò significava un’espansione della sfera del capitalismo mondiale sotto l’egida dell’esercito americano. I nemici principali di questo nuovo ordine mondiale definiti da Lake “backlash states” [letteralmente “stati che oppongono una reazione negativa”], erano soprattutto Iran e Iraq. L’insistenza di Lake, all’inizio dell’amministrazione Clinton, per una grande strategia di espansione per gli USA sta per essere realizzata oggi nell’espansione del ruolo militare non solo in Asia centrale e nel Medioriente, ma anche in Africa.

La grande strategia imperiale degli USA è più il risultato inevitabile della posizione di potere nella quale si trovò il capitalismo statunitense all’inizio del 21° secolo, piuttosto che un prodotto delle politiche generate a Washington dalle varie fazioni della classe dirigente. La forza economica degli Stati Uniti (insieme a quella dei suoi più stretti alleati) sta declinando in maniera del tutto regolare. Le grandi potenze non sembrano voler mantenere gli stessi rapporti economici reciproci rispetto a 2 decenni fa. Allo stesso tempo, la potenza militare mondiale degli Stati Uniti è relativamente aumentata con il crollo dell’Unione Sovietica. Gli Stati Uniti ora riportano circa la metà della spesa militare a livello mondiale, ovvero due volte o più la sua parte nella produzione mondiale.

L’obiettivo della nuova grande strategia imperiale degli Stati Uniti è usare questa forza militare senza precedenti per inglobare le forze che stanno emergendo e creare una sfera di dominazione così vasta da inglobare ogni continente, in maniera tale che nessun rivale potenziale sarà in grado di sfidare fino in fondo gli Stati Uniti per interi decenni. Questa è una guerra contro le popolazioni della periferia del capitalismo mondiale e per l’espansione dello stesso capitalismo, in particolare quello statunitense. Ma è anche una guerra per assicurare un “Nuovo Secolo Americano” in cui le nazioni del terzo mondo sono viste come “patrimoni strategici” all’interno di una più grande battaglia geopolitica.

La lezione della storia è chiara: i tentativi di conquistare il dominio del mondo intero attraverso mezzi militari, anche se inevitabile sotto il capitalismo, sono destinati a fallire e possono solo portare a nuove e più grandi guerre. È responsabilità di coloro che si impegnano per la pace nel mondo resistere alla nuova grande strategia imperiale degli Stati Uniti chiamando in causa l’imperialismo e le sue radici economiche: lo stesso capitalismo.


"Che altri popoli vivano nel benessere o che crepino di fame mi interessa solo nella misura in cui abbiamo bisogno di loro come schiavi al servizio della nostra cultura.", Heinrich Himmler - ufficiale delle SS naziste

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