Il libro, da cui è tratto l'estratto che segue, è acquistabile qui.
La pubblicità, arma del marketing, è l’arte di vendere qualsiasi cosa a chiunque e con qualsiasi mezzo. Per la precisione, è il marketing nella sua dimensione comunicazionale. Passando attraverso la scappatoia dei media, essa costituisce l’archetipo della «comunicazione». La critica alla pubblicità si estende quindi alla critica contro il marketing e contro la comunicazione: questi tre flagelli compongono insieme il sistema pubblicitario. Ma questo sistema è stato generato dal capitalismo industriale, che finanzia i media di massa di cui orienta il contenuto. Il problema perciò non si riduce all’abbrutimento pubblicitario, include anche la disinformazione mediatica e la devastazione industriale. Non bisogna illudersi: la pubblicità è solo la punta dell’iceberg del sistema pubblicitario, ovvero di quell’oceano glaciale nel quale si sviluppa ed espande la società consumista con la sua crescita devastante. E se siamo contro tale sistema e tale società, è perché il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo. L’effetto principale della pubblicità è la propagazione del consumismo. Basato sull’iperconsumo, questo stile di vita riposa sul produttivismo, e dunque implica lo sfruttamento crescente delle persone e delle risorse naturali. Tutto ciò che consumiamo comporta meno risorse e più scarti, più nocività e più lavoro depauperante. Il consumismo porta così alla devastazione del mondo, alla sua trasformazione in deserto materiale e spirituale: un ambiente dove sarà sempre più difficile vivere e sopravvivere in modo umano. In questo deserto prospera la miseria fisica e psichica, sociale e morale. Gli immaginari tendono ad atrofizzarsi, le relazioni sono disumanizzate, la solidarietà si decompone, le competenze personali diminuiscono, l’autonomia sparisce, i corpi e le menti vengono standardizzati.
La miseria umana della pubblicità è, dunque, sia questa vita impoverita che esalta una pubblicità onnipresente, sia la miseria degli ambienti pubblicitari stessi, che illustrano in modo caricaturale l’impoverimento morale di cui soffre la società mercantile. Il cinismo - di cui alcuni menano vanto - fa parte a tal punto del loro «folclore professionale» che, ad esempio, nessuno osa contestare la descrizione romanzesca che ne fa Frédéric Beigbeder. Secondo François Biehler, pubblicitario sempre in servizio, essa è «rigorosamente esatta». Come può giustificare la sua professione, allora?
«La pubblicità serve anche a rilanciare i consumi». I pubblicitari stessi non negano che ciò implica una buona parte di manipolazione. E cosa significa manipolare qualcuno, se non fargli fare qualcosa che non avrebbe mai fatto spontaneamente, come rinnovare inutilmente merce futile e nociva? Come diceva Machiavelli, il fine giustifica i mezzi. Biehler deve quindi ritenere tollerabile questa manipolazione, in quanto si compie in nome di un fine eminentemente consensuale: «Rilanciare i consumi e far funzionare l’economia, il che, a priori, non è condannabile».
Ecco che si tocca l’assioma che viene sotteso nella schiacciante maggioranza dei discorsi sulla pubblicità: è bene, anzi necessario, stimolare la Crescita, questa Vacca Sacra invocata in coro da tutti i politici, questo Messia del quale si acclama il ritorno. Se si accetta il dogma fondante dell’economicismo, pregiudizio che quasi nessuno contesta malgrado i suoi effetti disastrosi sulle nostre vite, allora la pubblicità è effettivamente indispensabile, tanto che diventa difficile metterla in discussione. Se invece la volontà di produrre si giustifica con il fatto che ne dipende la sopravvivenza materiale, in società come le nostre, dove regnano spreco e sovrapproduzione, si tratta di un presupposto irragionevole, irresponsabile e pericoloso. Dobbiamo inziare a renderci conto che la crescita, divenuta fine a se stessa, invece di corrispondere ai nostri bisogni è prima di tutto crescita di nocività e di diseguaglianza. La pubblicità è indissolubilmente legata alla devastazione del mondo, di cui è uno dei motori. Essa vi contribuisce doppiamente: spingendo l’iperconsumo di merce industriale, favorisce lo sviluppo di un’economia devastatrice; e dissimulandone le conseguenze, frena una presa di coscienza ogni giorno più urgente se si vuole evitare il peggio. Essa deve dunque essere oggetto di una critica radicale, cioè di un’analisi che risalga fino alle sue radici. Solo coloro che identificano saggezza e acquiescenza, spirito critico e consenso mediatico, possono accontentarsi della denuncia dei suoi eccessi più flagranti. Ma soltanto risalendo alle radici si potrà comprendere la ragione dei suoi abusi così ordinari, in particolare dell’estrema violenza che fa subire alle donne. Ma nessuno ne esce indenne, come mostrerà questo manifesto contro la pubblicità e contro «la vita che vi si rispecchia».
Per gentile concessione dell’editore ecco un capitolo e un estratto dalle conclusioni di “Miseria umana della pubblicità”
Approfondimenti:
- Sito dei Casseurs de Pub (Spacca-pubblicità)
- AdBusters
- Anti-marketing nei videogiochi
"Oggi si conosce il prezzo di tutte le cose e il valore di nessuna", Oscar Wilde
3 commenti:
hai ragione, la pubblicità fa schifo, per questo non comprerò il tuo libro, visto che ti stai facendo una pubblicità indecente.
Il mio ramo di competenza è ingegneristico, non pubblicitario. Non è mio il libro, l'articolo è tratto da comedonchisciotte.org (il link è presente a piè pagina)...
mi dispiace, toppato in pieno.
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