31 marzo 2008

Afghanistan: il mito della ricostruzione

Che i soldi facciano strani giri si è sempre saputo. Ma che riescano a partire come aiuti umanitari per poi tornare a casa come profitti è meno scontato. É il caso dell'Afghanistan, che rimane, piaccia o no, un vulnus scoperto per tutti i Paesi appartenenti alla Nato e per gli Usa stessi. Al problema (che in realtà per molti è un business), già ampiamente trattato, delle coltivazioni d'oppio e del narcotraffico si aggiunge una situazione in continuo declino e di guerra continua, che non lascia trasparire la possibilità di orizzonti migliori. Nonostante nelle cronache nostrane non trovi particolare spazio, nell’ultima classifica redatta dal rinomato centro studi britannico d’intelligence Jane's Information Group, il Paese asiatico risulta il terzo più instabile al mondo dopo Gaza e Somalia, mentre l’Iraq è al ventiduesimo posto. Per la Nato, l’unica soluzione è inviare più truppe nella speranza di sconfiggere i talebani a suon di bombe. Al contrario non si pensa di prendere alcuna contromisura nei confronti dell'allarme lanciato da un gruppo di 84 Organizzazioni non governative presenti in Afghanistan: secondo un rapporto pubblicato da Acbar, le promesse di aiuti per la ricostruzione non sono state mantenute. Dei 25 miliardi di dollari riservati all’Afghanistan, scrive il rapporto, soltanto 15 sarebbero giunti a destinazione (per inciso, tutti soldi dei contribuenti degli svariati paesi coinvolti nella missione "di pace" che non si sa dove siano finiti). Ecco, nel dettaglio, un interessante articolo di peacereporter [*1]:
Un duro rapporto stilato dall’Oxfam per l’Acbar, l’agenzia internazionale che coordina un centinaio di Ong che operano in Afghanistan, denuncia la grande farsa degli aiuti internazionali destinati alla ricostruzione e all’assistenza umanitaria. Soldi promessi e mai dati. Il primo problema evidenziato dal rapporto è la scarsità dei finanziamenti a cui si aggiunge la mancata erogazione di gran parte dei fondi promessi. La comunità internazionale spende circa 4,5 milioni di euro al giorno in attività umanitarie e di ricostruzione; per le operazioni militari i soli Stati Uniti spendono quotidianamente oltre 60 milioni di euro: una differenza che ben descrive quali siano le reali priorità della comunità internazionale. Se questo già si sapeva, risulta invece degno di nota il fatto che degli oltre 15 miliardi di euro promessi dai donatori (governi e istituzioni internazionali) dal 2001 a oggi, meno di 10 sono stati effettivamente spesi. I soli Stati Uniti, ad esempio, hanno dato solo la metà dei 6 miliardi di euro promessi negli ultimi anni. Gli altri Paesi, in media, hanno dato due terzi delle cifre impegnate. Soldi che tornano indietro. Ma la rivelazione più scioccante del rapporto dell’Acbar, è che dei pochi finanziamenti internazionali effettivamente erogati per i progetti umanitari e di ricostruzione, quasi la metà torna nelle tasche dei Paesi donatori sotto forma di contratti d’appalto fatti ad aziende occidentali o di spese per gli stipendi, il vitto, l’alloggio, la sicurezza e la mobilità del personale espatriato. Per esempio, quasi la metà dei finanziamenti della Cooperazione statunitense (UsAid) sono finiti in appalti a cinque multinazionali Usa (KBR-Halliburon, Louis Berger Group, Chemonics International, Bearing Point e Dyncorp). Lo stipendio medio di un operatore umanitario occidentale che lavora in Afghanistan è di 20mila euro al mese. Per non parlare delle case con piscina e aria condizionata in cui vengono alloggiati, delle guardie armate che proteggono abitazioni e uffici (10 mila uomini solo a Kabul), dei rifornimenti di cibo occidentale spediti dalla madrepatria e delle flotte di lussuosi fuoristrada Toyota. Soldi spesi malissimo. Tolto tutto questo, i soldi effettivamente spesi per gli afgani sono stati circa 9 miliardi di dollari. Che però, spiega il rapporto, sono stati spesi nella peggior maniera possibile. I progetti, infatti, non sono stati decisi dalle Ong in base alle effettive esigenze della popolazione, ma sono stati gestiti dai Prt provinciali della Nato in base a logiche militari, vale a dire allo scopo di “conquistare le menti e i cuori” delle popolazioni che vivono nelle aree controllate dai talebani. Un sistema che spesso finisce con il diventare un aperto ricatto nei confronti delle comunità : “Se volete che vi costruiamo la scuola o il pozzo o la strada, dovete fornire informazioni sui talebani e non sostenerli più”. Una strategia che si è rivelata fallimentare sia sul piano militare (l’insurrezione talebana si è estesa di anno in anno) che su quello umanitario, dato che i progetti spesso vengono abbandonati per le scarse condizioni di sicurezza.

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